venerdì 27 settembre 2013

Le recensioni indiescutibili: Santo Niente "Mare Tranquillitatis"



Umberto Palazzo è una figura fondamentale nell'italico panorama: da trenta e passa anni sulla scena, fondatore dei Massimo Volume, con i quali entrò in rotta di collisione poco prima della registrazione dell'esordio "Stanze". Subito dopo fonda il Santo Niente, con i quali scriverà pagine indelebili per l'indie rock nostrano: "La vita è facile" e "'Sei 'Na Ru Mo'No Wa Na'i" andrebbero inseriti in ogni buon prontuario per l'aspirante rocker italico, alla voce "ascolti fondamentali".
Dopo quella indimenticabile stagione bolognese, riabbraccia le sue radici, stabilendosi in pianta stabile a Pescara. Da li inizia la fase due della carriera di Palazzo: dj di professione e organizzatore di concerti in qualità di direttore artistico dell'ormai defunto Wake Up, tra i più rinomati club della penisola. Questo spaccato biografico è necessario per comprendere l'evoluzione artistica di Palazzo: nella sua fase pescarese infatti, possiamo ben dire che ha dato il meglio di se.
Pubblica con il nuovo combo de Il Santo Niente "Il Fiore dell'Agave" nel 2005, da molti salutato come il capolavoro dell'ormai band pescarese. Non pago di tutto ciò, nel 2010 da vita a El Santo Nada, un autentico spin-off della band, in chiave spaghetti-tex-mex-morriconiana con il quale pubblica "Tuco". Successivamente arriva alla pubblicazione del primo lavoro solista, "Canzoni della notte e della controra", in bilico tra canzone d'autore e popular music. Se "Tuco" è un lavoro cinematografico, e il disco solista di Palazzo da più spazio alla forma canzone, l'ultimo lavoro del Santo Niente (come chiusura di un ideale trilogia artistica) acquisisce una fisionomia più letterario-teatrale.

Umberto Palazzo e Il Santo Niente


"Mare Tranquillitatis" è un grandissimo disco, ma di non facile assimilazione. Un lavoro cupo, tenebroso, tormentato nelle liriche. Un disco che va ascoltato e riascoltato, con impegno e dedizione. L'iniziale "Cristo nel Cemento" la potremmo definire apocalittica: il minimale giro di basso di Tonino Bosco fa da prologo ad una disperata deflagrazione strumentale, che successivamente si trasforma in un mantra per batteria e basso sopra il quale Palazzo scandisce con forza il testo (ispirato all'opera "Christ in Concrete" di Pietro di Donato, scrittore americano originario di Vasto).
La successiva "Le ragazze italiane", è una specie di marcia garage rinforzata dallo psicopatico sax elettronico di Sergio Pomante nella quale balza all'occhio la pungente ironia del testo (peraltro l'unico pezzo "cantato"), critico nei confronti di un permeato moralismo perbenista, tipico dello stivale. Tra le sei tracce del disco è sicuramente la più accessibile, da un punto di vista strettamente musicale, ma forse la meno ispirata se si guarda l'intero disco nel complesso.
"Un certo tipo di problema", con il suo protagonista, ostaggio involontario di un losco cocainomane e di una notte infinita, odora di indie-rock bolognese, di quella scena che il Santo Niente e i Massimo Volume hanno contribuito ad elevare allo status di culto. Si è molto dibattuto sulla paternità musicale di questa traccia: Massimo Volume o no? A mio avviso, più che di un influenza si tratta di un vero e proprio lascito culturale, figlio di una controcultura, di una città e di un periodo che rimarrà impresso come un tatuaggio, per tutti coloro che ne fecero parte.
"Maria Callas" è il capolavoro del disco: il malinconico ricordo di una diva transgender ferita nel cuore da un "piccolo uomo meschino" musicalmente ci riconduce verso i lidi di "Canzoni della notte e della controra".
"Primo sangue" è la traccia più cinematografica del disco. Storia della notte brava di un neo patentato, sostenuta da un claustrofobico beat per cassa dritta, un ipnotica chitarra acustica e un kaossilator impazzito: qui la musica è un mezzo, un pretesto per raccontare una distorta favola acida.
 La successiva e conclusiva "Sabato Simon Rodia" ci porta dalla galleria di un cinema al loggione di un teatro; questa traccia suona come la perfetta colonna sonora di un ideale pièce teatrale, incentrata sulla figura del bizzarro immigrato avellinese che costruì le Watts Towers a Los Angeles. La scelta non sembra un caso: Pietro di Donato e Simon Rodia, emigranti italiani, entrambi in qualche modo legati alla megalomane edilizia americana, certamente due visionari, quasi due "cervelli in fuga" che qui diventano i simboli,  prologo ed epilogo di un opera di profonda importanza per il rock italiano.

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