lunedì 13 gennaio 2014

Video reportage: Musique vol.2 @ CineTeatro Preneste Occupato 14/12/2013




Indiestruttibili ha scelto di documentare Musique, progetto targato Trauma Studio.
Ve ne avevamo già parlato in occasione del primo appuntamento di Musique tenutosi all'atelier Esc dove il tema era stato l'osmosi tra strumenti musicali ed elettronica, tra analogico e digitale.

Questa volta ritorniamo per il secondo appuntamento che si è svolto il 14/12/2013 dove abbiamo assistito a concerti strumentali arricchiti dall'elettronica nella stessa modalità, però, dell'appuntamento precedente: il luogo dell'evento si è tenuto in un quartiere, il Pigneto che, analogamente al quartiere San Lorenzo, è connotato per essere diventato negli ultimi anni un punto d'incontro per gli artisti in cerca di fortuna a Roma. La location, invece, è stata un altro importante spazio occupato della capitale, il CineTeatro Preneste Liberato, poichè sono proprio questi luoghi a stimolare la sperimentazione degli artisti e la ricerca del pubblico meno convenzionale.

Vi lasciamo con un video della serata e vi ricordiamo il prossimo ed ultimo appuntamento:

- "MUSIQUE vol.3 - La fusione di generi, dall'audience concertistica al dancefloor elettronico" - 18 Gennaio 2014 @ Strike Spazio Pubblico Autogestito.

Buona Visione!


giovedì 12 dicembre 2013

Video reportage: Musique @ Esc Atelier 16/11/2013







Indiestruttibili ha scelto di documentare Musique, progetto targato Trauma Studio.

Il Trauma Studio è una realtà nata 6 anni fa che si occupa di promuovere artisti e veicolare cultura, sia a livello nazionale che internazionale. E' un progetto aperto e collettivo di cui tutti possono far parte, per collaborazioni sia per brevi che per lunghi periodi, per questo è sempre un "work in progress".
Le realtà con cui si confronta sono sempre diverse, e dopo le tre edizioni di "Pigneto città aperta", che come una festa di quartiere mobilita tutti e tutto nelle più disparate attività, i due "Freakshow", in stile "grande festa di carnevale" dedicata ai freaks, agli outsiders e ai visionari, e l'"Outecofest", uno dei primo eco-festival d'Italia dove, in un suggestivo scenario come quello delle Cascate delle Marmore, assistiamo all'esibizione di artisti nazionali e non, intrattenimento, attività all'aria aperta e sport estremi, ritorna Musique.
Musique si compone di tre serate nelle quali si propone di esplorare la commistione d'interazione tra musica non convenzionale e spazi urbani dismessi. 
Un'opportunità, sia per gli artisti che, mettendosi alla prova, vogliono far conoscere la propria voglia di sperimentazione, sia per un pubblico alla ricerca di stimoli.
La prima tappa ha trattato l'osmosi tra strumenti musicali ed elettronica, tra analogico e digitale ed ha visto una notevole affluenza.

Vi lasciamo con un video su "Musique volume uno @ atelier Esc" e vi ricordiamo i prossimi appuntamenti:

- "MUSIQUE Vol 2 – Percorso al contrario, dalle derive elettroniche agli strumenti unplugged", Sabato 14 Dicembre @ Cineteatro Preneste Liberato
- "MUSIQUE Vol 3 – La fusione di generi, dall’audience concertistica al dancefloor elettronico", Sabato 18 Gennaio @ Strike Spazio Pubblico Autogestito

Buona visione!











domenica 10 novembre 2013

INDIECAR(t)E: Michele Vino e un racconto di fotografia


Oggi parliamo di e con Michele Vino, fotografo ventitreenne dalla spiccata sensibilità.

Cresciuto a Cerignola, in provincia di Foggia in Puglia, si è poi spostato alla sola età di 17 anni a Foggia cominciando ad approcciarsi alla fotografia come hobby.
All'età di 20 anni, sceglie di cambiare nuovamente aria, trasferendosi per due anni ad Urbino dove la sua passione diventa qualcosa in più del semplice passatempo e dove, principalmente da autodidatta, comincia lo studio della fotografia.

Già da un po' nel mirino di Indiestruttibili in quanto ci ha colpito per le storie che i suoi scatti riescono a raccontare, l'abbiamo incontrato e abbiamo chiacchierato con lui in occasione della sua prima mostra ufficiale tenutasi a Cerignola, suo paese di origine, "L'altro Vietnam" tra il 10 e il 13 ottobre che racconta, con 22 scatti, il Vietnam che Michele ha vissuto in un viaggio di 50 giorni.


1. Uno fin da piccolo dice di voler fare qualcosa di preciso, e a volte ci riesce. Altri semplicemente lo decidono dopo la scuola. Altri ancora ci si imbattono così per caso. Per quel che ti riguarda, com’è arrivata la passione per la fotografia?

La fotografia non è certo quello che , da piccolo, avrei immaginato per il mio futuro e, a dir la verità, ancora faccio difficoltà ad immaginarmi come “fotografo”.

Ho scoperto la fotografia relativamente tardi , avevo 17 anni anni quando ho avuto fra le mani la mia prima fotocamera e, pur sentendo una forte attrazione, non immaginavo quanto in là mi sarei spinto. 
Mi è difficile dire come sia arrivata la passione, a volte ripenso a quando ero piccolo e mia madre , pur non essendo una fotografa, mi scattava centinaia e centinaia di fotografie e io posavo per lei divertito. Ero figlio unico e soffrivo un po’ per della mia solitudine, mi piaceva riguardarmi in foto, è come se mi facessi compagnia. Ancora oggi le mie fotografie mi fanno spesso compagnia. Mi piace pensare che ci sia questo all’origine. Chiaramente uno deve trovare altre motivazioni più valide per rimanere affezionato a una passione che, diversamente, si esaurirebbe subito. Poi oggi guardando come i bambini si incuriosiscono difronte agli apparecchi fotografici mi fa pensare che  sicuramente mi è rimasto quel desiderio di bambino che è sempre voluto essere dall’altra parte della fotocamera,ma...chissà!

2. Osservo da sempre le tue fotografie, e ciò che mi affascina sono il loro “sembrare dei racconti”. Non dei semplici scatti, fatti così, per ritrarre un bel soggetto, ma racconti che arrivano all’occhio dell’osservatore in maniera semplice e diretta, che, al contempo, sono in grado di celare dei retroscena. 
Ma sappiamo bene che, dietro la realizzazione di un bel racconto, c’è un iter di formazione ben studiato. Non basta saper impugnare la penna (che nel tuo caso è la macchinetta). C’è la scelta del protagonista, la ricerca della documentazione necessaria per scrivere su un determinato argomento, la scelta della fascia di età a cui il racconto vuole rivolgersi….Insomma, riesci a descriverci qual è il tuo iter?

Intanto ti ringrazio per l’apprezzamento che trovo vicino al mio modo di vedere le cose e al modo in cui vorrei trasmetterle. Certamente c’è un iter di formazione che è composto da tantissime variabili. Secondo me le più importanti sono quelle incognite, soggettive, che non fanno parte di uno studio o di una ricerca conscia, ma del vissuto di una persona, della sua unicità, che spingono là dove nessun altro sarebbe arrivato. 
Con questo non mi voglio attribuire capacità straordinarie, dico solo che ognuno nella propria “ordinarietà” ha qualcosa di “straordinario”, ed è quello che fa la differenza.
Questo non significa che le variabili oggettive, più facili da individuare, debbano mancare. Le variabili più oggettive, la tecnica, la curiosità e la consapevolezza, sono anche queste fondamentali, ma vanno a far parte di qualcosa di più complesso che è strettamente legato a quello che noi profondamente siamo.
Il mio iter ha attraversato certamente la lettura di testi che mi preparassero alla tecnica, o, per esempio per i miei ultimi lavori, alla conoscenza del posto in cui ho viaggiato, alle problematiche legate all’obiettivo della mostra, ma le risposte che ho trovato sono diverse da quelle che avrebbe trovato un altro al posto mio, e un altro ancora al posto di quest’ultimo.
Con questo voglio dire che sono fondamentali per il risultato finale, la mia storia, il modo in cui l’ho vissuta e rielaborata , le speranze e le ricerche di cui ancora vivo e di cui ancora necessito.

3. Il tuo ultimo “racconto” è quello che di recente hai esposto in una mostra tenutasi nei giorni tra il 10 e il 13 Ottobre 2013 presso L’“Exopera” di Cerignola: L’altro Vietnam.
Quando si decide una meta da visitare sono tante le dinamiche che ci portano a sceglierla. Quando si sceglie poi di affrontare da soli, senza alcuna compagnia, queste possono essere anche più profonde perché il viaggio, in questo caso, non è più la sola vacanza ma può diventare anche motivo di meditazione, crescita, scoperta, sperimentazione. Quali sono state le tue “dinamiche di scelta”? 

Il discorso rimane simile al precedente. 
Come ho già detto a qualcun altro, sarebbe bello se io fossi semplicemente una persona curiosa, insaziabile e che ama il viaggio in quanto tale. Da una parte è vero che c’è stato in questa partenza un profondo senso di ricerca, ma è stata una ricerca personale, che poi si è trasformata anche in un progetto più ampio, partita però per delle mie mancanze e bisogni. 
Vivevo ad Urbino e tante relazioni della mia vita erano di un livello davvero scadente, non peggio di quello che la maggior parte di noi vive, ma diciamo che a me stavano particolarmente strette! Sono molto istintivo e spesso faccio cose di cui non mi domando il senso, il Vietnam è stata una di queste. 
Aldilà delle risposte banali, che ti risparmio, non c’è stato un motivo chiaro per il quale sono partito se non per quello che ho già scritto; a posteriori mi domando sempre cosa mi abbia spinto a farmi un tatuaggio piuttosto che un altro, o a scegliere un luogo piuttosto che un altro, e, nel caso del Vietnam, penso di essere stato affascinato da quella che dev’essere stata l’unità di questa Nazione per scampare alla dominazione di tante superpotenze, da come si saranno andate a costituire le relazioni dei vietnamiti nei periodi della guerra, dall’immaginario di relazioni fortissime, quelle che sono mancate nella mia vita, infatti anche se finisco col definire il lavoro di quei giorni come “reportage” mi rendo conto che assolutamente non lo è! 
Ci sono parti di Vietnam, ma c’è sopratutto la mia esperienza nei luoghi e nei visi fotografati, c’è la risposta a quello che cercavo e che penso oggi in molti cerchino.

4. La mostra.
Quando un artista decide di mostrare i suoi lavori, sceglie di mettersi a nudo, di affrontare critiche positive e negative, di confrontarsi con idee che sono diverse dalla propria. Dal ritorno da questo viaggio on the road di 50 giorni, avresti mai pensato di arrivare ad esporre i tuoi scatti? 

"L'altro Vietnam" presso "Exopera, 10/10/2013
Perché no? Oggi tutti esponiamo tutto senza remore. Basti pensare a come si struttura il web. Io cerco di non farlo e di mantenermi nei limiti della decenza, e ho pensato che gli scatti del Vietnam meritassero una condivisione, sia per i contenuti, sia perché, come già detto, immaginavo che la mia ricerca fosse simile a quella di altri che avrebbero potuto “viaggiare” attraverso le foto e tornare a casa con qualche interrogativo. Con qualcuno mi sembra anche di esserci riuscito, e questa è una grandissima soddisfazione.




5. Come ben sai, io ero presente all’evento e, oltre a guardare i tuoi lavori, che ho sentitamente apprezzato, ti ho “spiato”. A un certo punto una donna ti ha chiesto di firmare un foglio. Non so che tipo di firma ti abbia chiesto, ma ho visto i tuoi occhi diventare quasi lucidi per la gioia e hai sfoggiato un sorriso, di quelli che ricordano i bambini quando scartano i regali di Natale. 
Da questa immagine, vorresti descriverci le emozioni provate in quei giorni? Cosa ha suscitato in te questa esposizione e il riscontro di tantissimi pareri favorevoli?

Sicuramente il mio sorriso era più di imbarazzo, che di felicità! O forse dietro l’imbarazzo si nascondeva della gioia, certo è che quando vengono riconosciute le nostre capacità è difficile non esserne contenti, soprattutto quando dietro al progetto che viene apprezzato ci siamo tutti noi stessi. Così è stato per tutti i tre giorni, in misura decisamente maggiore di quel che mi sarei aspettato.
Devo dire però che secondo me questa rimane vana gloria, e quello che più mi ha emozionato è stato vedere quanta gente si è interessata al progetto, quanti si sono attivati e scomodati per questo. Nel vedere così tante persone interessate, ho pensato che, alla fin dei conti, la mia ricerca e la loro è la stessa, e che oggi sono riuscito a portare a casa quello che cercavo in luoghi così lontani, ho rivalutato molto il mio territorio e ho trovato una nuova speranza nelle persone. Questo mi ha realmente commosso, più di qualsiasi altro complimento che abbia potuto ricevere.

6. Di tutta questa esperienza, dal viaggio, dalla sperimentazione tecnica ed artistica, dalla mostra e dai consensi ricevuti, quali sono i frutti? Cosa ti rimarrà, a livello personale, di tutto questo?

Come appena detto, ho rivalutato il posto in cui vivo. Diciamo che ora, anche carico di quello che ho visto e vissuto, spero di riuscire a pormi diversamente nelle relazioni fermandomi meno alle mie chiusure iniziali e quelle de
gli altri.

7. Sei molto giovane, ma, a mio parere, hai già qualcosa da insegnare. Vorresti dare un consiglio, un parere, o anche una semplice opinione, che possa essere emozionale, tecnica, o entrambe, a chi, come te, voglia avvicinarsi al mondo della fotografia?

Credo che l’uomo stia diventando sempre più complesso, acquisendo una multimedialità di linguaggio in cui le immagini stanno ottenendo, quasi prepotentemente, un valore sempre più importante. Rendere una foto di pubblico dominio è come scrivere il proprio pensiero. La vera distinzione ontologica fra i due, secondo me, sta nel fatto che le parole sono di più semplice interpretazione, le immagini no perché non siamo educati a “leggerle”, e questo crea molta confusione.
Ognuno è libero di scrivere con la fotografia il proprio “saggio”, il proprio “romanzo rosa” o l’articoletto da giornale di gossip. 
Il consiglio che mi sento di dare è semplicemente quello di interrogarci sempre su cosa stiamo guardando e sul perché ci venga proposto, al di là di ciò che vediamo.

8. In conclusione, quali sono i tuoi progetti imminenti? E questi includono anche qualche nuovo viaggio o per questo aspetterai un po’ e per il momento ti limiterai a sognare nuove mete?

Come progetti futuri imminenti, è in cantiere una mostra nel mese di dicembre a Bari. 
Ora mi trovo a Firenze dove ho cominciato i miei studi di fotografia presso un’accademia, e dove mi “limiterò” a ricercare lo straordinario in questa nuova ordinarietà sperando di raggiungere mete inaspettate. 
Appena poi avrò la possibilità di viaggiare, lo farò ancora.



a cura di Liana Traversi

mercoledì 16 ottobre 2013

Le Interviste Indiescutibili: Umberto Palazzo




Umberto Palazzo è un nome di primo piano nel panorama indie-rock italiano. Tra mille progetti paralleli, è finalmente tornato a pubblicare un lavoro con la sua creatura prediletta: il Santo Niente.
"Mare Tranquillitatis" è un grandissimo lavoro, di non facile impatto, ma ragionato e lucidamente folle. Qui troverete la nostra recensione, con tutti i dettagli biografici di Umberto, intanto vi proproniamo l'intervista rilasciata da Umberto a Indiestruttibili qualche giorno fa:

Ciao Umberto! Con il Santo Niente ci eravamo lasciati nel 2005; sappiamo bene che da allora tra un progetto e l’altro sei sempre stato in movimento. Dunque come mai abbiamo dovuto attendere otto anni per il nuovo disco? Il progetto era in stand-by? Volevi aspettare il momento giusto o semplicemente in questi 8 anni tra i tuoi vari impegni, Il Santo Niente non rappresentava una priorità?


Dovevo fare gli ultimi tre dischi nella sequenza in cui li ho fatti perché nella mia testa sono una specie di trilogia. Non ti so dire perché ma l’ordine non poteva che essere questo.

Qua e la ho letto che questo lavoro è nato circa un anno e mezzo fa, dopo che hai letteralmente cestinato altro materiale che, a tuo dire, era poco omogeneo per essere amalgamato in un disco. La domanda è: delle sei tracce del disco, qual è quella che ti ha fatto capire che dovevi andare in una direzione diversa rispetto al materiale partorito sino ad allora ? Qual’è il seme dal quale sboccia Mare Tranquillitatis?

Direi da “Primo Sangue”, una traccia che ho iniziato a comporre partendo dalla batteria elettronica. L’idea di base è stata eliminare la centralità della chitarra elettrica e portare avanti ritmica, elettronica, campionamenti e strumenti acustici.

Mare Tranquillitatis, ultimo lavoro del Santo Niente


Mare Tranquillitatis ritengo non sia un lavoro “facile”. Sia  musicalmente che a livello di testi, tutto è molto ricercato. La prima cosa che ho pensato ascoltandolo , è che questo non è un lavoro di quelli che nasce in sala prove. Ad esempio una traccia come “Sabato Simon Rodia” come nasce?

Nasce nel laptop di Tonino Bosco, bassista della band e compositore del pezzo, su Ableton Live. Io non ho usato Live nella preproduzione, ma solo nella fase finale, però il cd è nato nei nostri computer prima di arrivare in sala prove. Non usiamo midi dal vivo, ma i campionatori sono molto importanti.

Secondo me il termine che meglio inquadra il concept di Mare Tranquillitatis è “tormentato”. Sei d’accordo?

I personaggi sono tutti tormentati, ma il mio punto di vista è distaccato. Trovo che una delle cose peggiori e provinciali della tradizione italiana sia caricare di troppo pathos i testi e le interpretazioni. Deriva sicuramente dalla nostra tradizione operistica. Io lo trovo pacchiano e quindi cerco sempre di essere freddo e distaccato. Le emozioni stanno nelle azioni e non nei toni.

Questo disco secondo me rappresenta il punto di arrivo di un percorso artistico maturato negli ultimi quattro-cinque anni. Cercherò di essere più chiaro: secondo me i Santo Nada e il disco “Tuco”, hanno un’anima molto cinematografica. Nel tuo disco solista invece hai dato molto spazio alla forma canzone. In questo disco invece emerge una vena letterario-teatrale. Ti ritrovi in quest’affermazione?

Direi che è cinematografico anche se in modo diverso anche Mare Tranquillitatis. I testi possono anche essere piccole sceneggiature e le musiche la loro colonna sonora.

Seguendoti su Facebook ho notato che qualche giorno fa, dopo che hai postato una recensione negativa, è scoppiato un piccolo putiferio riguardo la traccia “Un certo tipo di problema”, e i suoi influssi a là Massimo Volume ecc ecc. Personalmente io credo che in quella traccia più che un influenza dei “tuoi” Massimo Volume , si respiri l’aria di un periodo, di una scena alternativa, quella del periodo d’oro bolognese, di cui certamente tu e i Massimo Volume siete stati alfieri. Vogliamo chiuderla così questa storia o vuoi aggiungere qualcos’altro?

Veramente il putiferio non era per questo motivo, ma creato ad arte per motivi meschini. Comunque la ritmica di “Un certo tipo di problema” l’ho presa da “I remember nothing” dei Joy Division. Tutto il pezzo è un omaggio più che palese e per di più dichiarato ai Joy Division, con le sue linee di basso alla Hook e tutto il resto. Se uno nella ritmica di quel pezzo sente i Massimo Volume forse è meglio che ascolti meno musica italiana. Sono sbalordito dallo chauvinismo degli ascoltatori italiani: la percentuale massima di musica italiana che riesco ad ascoltare non va oltre il 5% e davvero non credo che valga la pena di spenderci più tempo visto che di roba interessante ce n’è pochissima, mentre dal mondo arriva in continuazione musica fantastica. Tutti noi siamo scioccati dal fatto che nelle recensioni di Mare Tranquillitatis non si parli mai di gruppi stranieri ma solo di band italiane. Noi ascoltiamo musica straniera, non ci sentiamo parte di questa scena. Non ci piace il rock italiano, non lo ascoltiamo.

Parlando di Bologna, c’è una domanda che volevo farti, ma prima devo raccontarti un piccolo aneddoto: anni fa, un mio amico lasciò il nostro paesino in Puglia, diretto come molti a Bologna per iniziare il suo percorso universitario. Dopo circa due o tre mesi, quando lo rividi gli chiesi come trovasse Bologna. La sua risposta fu secca: “Beh, non è più quella di una volta!”. Questo comunque, più o meno, è il giudizio impietoso che mi da chiunque ci abiti. Se quindi Bologna per tutti non è più quella di una volta, per coglierne l’essenza vera dovremmo tornare indietro al 1088, anno di fondazione dello studium? Cos’era per te Bologna?

Un posto dove facevo la fame e che non rimpiango. Bologna è sempre una città bella e civile, ma non è più il centro creativo che è stato in diversi periodi della sua storia. Non può più esserlo e non c’è neanche bisogno che lo sia. Ora c’è internet e non c’è più bisogno di stare per forza fisicamente nel posto giusto per capire quello che sta succedendo, basta essere lucidi e critici. Andare in un posto come Bologna ora, convinti di trovarci chissà cosa, può anche avere l’effetto opposto di ottundere la lucidità e il senso critico. 

Dopo questa fase bolognese, come mai ad un certo punto della tua vita artistica, hai maturato la decisione di tornare in Abruzzo?

Non aveva più senso stare là, economicamente e praticamente. Oggi accendo il computer e leggo notizie di prima mano da tutto il mondo, tengo una corrispondenza quotidiana con gente sparpagliata per il pianeta, ho un home studio, pago un affitto ragionevole, sono lontano dalle corporazioni dell’indie italiano, faccio le mie cose nel mio territorio e vivo decisamente meglio che un tempo. E’ parlare bene l’inglese che mi tiene in contatto col mondo e con le novità, non lo stare a Bologna, che è solo un altro posto di provincia, migliore di tanti altri, ma pur sempre provincia.

Vedo che a Pescara non stai un secondo fermo, penso alla tua esperienza sia come dj che come direttore artistico del compianto Wake Up. Pescara è una piccola isola felice oppure più semplicemente una volta tornato là, ti sei rimboccato le maniche per necessità?

La seconda che hai detto.

Premetto che sono un grande estimatore del “Santo Nada”: ho ascoltato “Tuco” fino allo sfinimento su Bandcamp . Ti ho già scritto, a rischio di essere smentito, che per me è un disco molto cinematografico. A parte i riferimenti musicali come i Calexico, il tex-mex in generale e Morricone, volevo chiederti se le valli abruzzesi, dove sono stati girati parecchi Spaghetti Western, siano state per voi fonte d’ispirazione.

Certo che sì! Ha fatto molta impressione ai recensori americani che la band venisse da un posto a cinquanta chilometri dalla località in qui è stato girato il Django originale. “Tuco” è stato molto ben accolto negli States e continua a fare ascolti e download a distanza di cinque anni.

El Santo Nada: un autentico spin-off tex-mex del Santo Niente

Sempre in tema d’Abruzzo: negli ultimi anni, nella cosiddetta scena indie, molte band in quanto a riferimenti letterari sono abbastanza convenzionali: Majakowskj, Jean Paul Sartre e tanti altri mostri sacri, ma alla fine un po’ scontati. Tu spiazzi tutti e apri Mare Tranquillitatis con “Cristo nel Cemento”, ispirata all’opera "Christ in Concrete" di Pietro di Donato (scrittore americano, originario di Vasto) . Un caso, voglia di raccontare qualcosa di diverso o semplicemente puro “patriottismo”?

Andare sul famoso garantisce pubblico e trovo che in questa tendenza di artistico e culturale non ci sia niente. Molti veri attori con lo stesso repertorio fanno il vuoto ed è ovvio che sia una cosa ad uso e consumo dei fan. Una cosa che rimane molto al di sotto di una proposta culturale di vero rilievo. E poi hai visto i cachet di certi reading?

Penultima domanda: sei sempre stato molto critico riguardo certe dinamiche dell’indie nostrano. Seguendo la scena italiana ho notato band, sicuramente valide musicalmente ma non eccezionali. Eppure queste band, che avevano alle loro spalle agenzie di booking molto forti nel settore, sono riuscite ad arrivare alle orecchie di praticamente tutt’Italia, con un prodotto che alla fine non diceva nulla. Credi che in Italia, anche nell’underground la meritocrazia sia una chimera?

Le band che hanno successo sicuramente se lo meritano perché senza sacrificio comunque non si ottiene niente, ma l’appiattimento critico sui soliti noti è deprimente in tutti i sensi. Ci vuole ricambio, mentre è piuttosto ovvio che ci sono nomi blindati che possono anche fare dischi orrendi senza ricevere neanche una critica negativa. E non parlo di pop italiano ma di rock alternativo. Se non hai santi in paradiso è normale invece ricevere giudizi misti, grandi recensioni miste a stroncature ed è quello che fa la differenza.

 Ultimissima domanda: dal vivo con il Santo Niente giri qua e la, ma ora che è uscito il disco ci sarà un tour vero  e proprio?

Sì, certo, ma ovviamente non avremo la visibilità di una band di primo livello

lunedì 7 ottobre 2013

Le recensioni indiescutibili: Spiral 69 "Ghost In My Eyes"







Ci sono band che fuggono a gambe levate davanti a facili etichettature, ovvie similitudini e ingombranti paragoni. Poi ci sono band -a mio avviso la maggior parte- che non temono di incappare sotto la scure dell'assimilazione, ed anzi, fanno del proprio personalissimo albero genealogico musicale un vero e proprio manifesto ideologico-culturale. Ora, in entrambi i casi le conseguenze di queste scelte non sono mai del tutto scontate e i loro effetti sull'orecchio dell'ascoltatore, sono sempre imprevedibili: un eccesso di avanguardia può far gridare al miracolo, ma -spesso- porta il malcapitato di turno a grattarsi il capo per giorni, salvo poi buttare per sempre nel dimenticatoio opere che lasciano il tempo che trovano. Nel secondo caso, lavori di gruppi dichiaratamente "alla" possono fare imbufalire schiere di puristi di questa o quella band o corrente, lasciarti in una nichilista indifferenza, o al contrario dare nuova linfa al suddetto genere, regalandoti una rassicurante e accogliente aria di casa (CheVabenePureAvventurarsiPerCaritàMaCasaMiaRestaIlPostoPiùBelloDelMondo!).
Gli Spiral 69 a torto o ragione, nel bene e nel male, appartengono alla seconda categoria qui analizzata.
Fin dal proprio nome (ispirato ad un hard movie tedesco dei primi '80) questa band non lascia spazio ad equivoci: territori prediletti qui sono il goth, il dark, la new wave, l'elettronica industriale.
D'altronde il leader Riccardo Sabetti, già conosciuto per la sua esperienza con gli Argine, band dark wave di Napoli, nel mettere in piedi questa sua creatura giunta ormai alla terza fatica in studio, fa parte di quella schiera di musicisti che, come detto, non teme raffronto alcuno.
"Ghost in My Eyes", forte di una produzione da primissimo livello (Steven Hewitt ex batterista dei Placebo, e Paul Corkett ingegnere del suono con Radiohead e Nick Cave), scorre nel player preciso, pulito e coerente con la propria idea di musica. Va detto che l'eccessivo orgoglio dark-wave finisce alla lunga per pagare dazio con influenze mai troppo celate, che talvolta sfociano in vero e proprio enciclopedismo. Il disco, che si apre con un apocalittico trionfo di synth, nelle prime due traccie ricorda i primi Editors (la voce in "Waves", e specialmente "New Life").
"No Earth" è una struggente ballad, che se da un lato è musicalmente bella e profonda, dall'altro ti lascia un po con l'amaro in bocca per l'inflessione del cantato, va detto dalla pronuncia perfetta (aspetto, questo, decisivo per noi italiani, sempre poveri di pronuncia anglosassone), ma troppo marcatamente ispirato al miglior Morrisey.
"Fake Love" a mio avviso è la traccia più ispirata del disco in quanto, pur rimanendo nel solco del genere di provenienza, con un pianoforte minimale ma efficace, organetti caramellosi, linee di cantato più decise e personali, e un sound avvolgente, a spirale per l'appunto.
"Dirty" e "Please" spaziano dall'elettro-rock stampo Depeche Mode all'industrial più controllato tipico degli ultimi Nine InchNails.
La title track, finale del disco, rappresenta l'episodio più sofferto e malinconico di quest'opera, sorretta dal bel pianoforte di Licia Missori, un'eccellente partitura d'archi e dalle ispirate linee vocali di Riccardo Sabetti.
Dopo aver ascoltato "Ghost in My Eyes", la sensazione generale è quella di avere a che fare con una band dal sound internazionale che, con i suoi mood sicuri e ben definiti potrebbe aspirare alla definitiva esportazione del rock tricolore oltremanica.
Queste impressioni positive però devono tramutarsi, da parte del combo di Riccardo Sabetti, in maggiore ricerca di personalità, in quanto lo sfoggio -seppur con grande maestria- del proprio folto background musicale è si un ottimo biglietto da visita, ma alla lunga può sortire un pericoloso effetto boomerang.

domenica 6 ottobre 2013

INDIECAR(t)E: Uno sguardo a ... Sebastian Bieniek


"Non ascolto ciò che dicono i critici d’arte. Non conosco nessuno che ha bisogno di un critico per capire cos’è l’arte." 
J. M. Basquiat                                                                                                                                                                                                    
Chi dice che l’arte è per pochi? 
L’arte è per tutti coloro che sanno guardare. Ma non fissare, con sguardi spenti e bocche serrate. Ma per chi sa sorridere e vivere con gli occhi.

È questo ciò che ci proponiamo di fare con questa rubrica. Non insegnare l’arte, non obbligarvi ad essere finti intellettuali cui basta conoscere a memoria tutti i movimenti e gli artisti presenti fino ad oggi sul pianeta, o a cui basta partecipare ad un vernissage o ad una mostra di prestigio per essere intenditori. Ma cercare di farvi guardare. Guardare con sorriso la vita. 
L’artista di oggi è una persona che sa guardare con profondità ogni aspetto della vita, e quando decide di esprimerlo con le sue opere riesce però ad esprimerlo con semplicità, ma quella semplicità che recepisce chi, come lui, sa osservare.
Sto parlando di Sebastian Bieniek, artista tedesco nato in Polonia.

La sua arte è comunicativa, intelligente e spesso ironica, capace di spaziare da un campo all’altro mantenendo, però, la sua interessante visione sia come fotografo o pittore,  che come scrittore o cineasta, e, proprio perché deriva direttamente dallo sguardo, è un arte istintiva e spesso prodotta con una serie di elementi.


Aveva già destato in me interesse l’anno scorso, con la serie di dipinti “Homeland”. Una serie di dipinti, di dimensioni 80x60, strutturati come la copertina di un giornale.



Il soggetto è sempre una donna sfigurata, accompagnata da  due parti scritte, introdotte per rafforzare il concetto secondo il quale una rappresentazione forte può essere così pregna di significato da ricondurre ad altri tipi di riflessione: un titolo, che, messo in sequenza con quelli degli altri dipinti della serie, è parte di una frase: “Some time you win Some time you lose”, letteralmente “Certe volte puoi vincere Certe volte puoi perdere”; una didascalia, “What happen if we leave….”, letteralmente “Cosa accadrebbe se noi lasciamo…”.                                                                       
Ad ispirarlo, dice, è stata la copertina di un numero del Times che raffigurava una donna afgana con il naso tagliato. Un immagine così forte vorrebbe apparentemente rappresentare una richiesta di aiuto da parte di alcune donne in altre parti nel mondo, ma in realtà, messa sulla copertina di una rivista così importante, diventa anche messaggio politico (la presenza militare statunitense in Afghanistan), classista (la donna che non può ribellarsi) e conservatorio.
L’opera, a mio parere, si mostra nella rappresentazione così chiara e semplice, ma basta soffermarsi solo un attimo in più sui singoli volti e sulle singole scritte per far mettere in moto una sorta di meditazione sul tema che ha mosso l’artista ad interpretarlo.
Doublefaced no. 13
Oggi Sebastian fa parlare di sé con un’altra serie di lavori: “Doubledface”.
Ad un primo sguardo, anche di una sola foto di quelle che compongono l’opera, si potrebbe pensare: “Quindi? Ha disegnato una faccia su una….faccia!”. Ma io non ci trovo nulla di banale in questo. 
Doublefaced no. 10
Basta pensare a come nasce l’idea: un giorno suo figlio stava così male da non riuscire a fare nemmeno un sorriso. Per alleviare il dolore, Sebastian gli disegna, con un pennarello, una faccia sul volto. Così, per farlo divertire un po’. Osservando meglio ciò che aveva fatto ha evoluto la rappresentazione disegnando, con solamente un eyeliner e un rossetto, una doppia faccia sul viso della propria ragazza. Tale rappresentazione serve ad indagare sul concetto della dualità delle persone. 
Doublefaced no. 23
Lo stile è volutamente semplice, proprio per arrivare a chiunque. La sua, infatti, non è un arte da galleria. Le sue opere vengono subito pubblicate sulla sua pagina Facebook o sul suo sito www.sebastianbieiniek.com. L’intento è quello di far pensare a chiunque osservi i suoi lavori “io so fare anche di meglio”, proprio per creare un’iterazione tra spettatore ed artista. Il risultato? Qualcosa di così estremamente semplice che ricorda il modo di guardare il mondo proprio di un bambino, che spiazza, stupisce, fa riflettere e fa sorridere.


a cura di Liana Traversi




Doublefaced no. 4

Doublefaced no. 24
Doublefaced no. 5
 

mercoledì 2 ottobre 2013

Targhe Tenco 2013: ecco i nomi dei vincitori


  
Sono stati resi noti i nomi dei vincitori delle targhe Tenco 2013, a fronte dell'annuale manifestazione organizzata dal Club Tenco, associazione che si occupa della promozione
della nostra musica d'autore. Le premiazione avverrà nella suggestiva cornice del Teatro Petruzzelli di Bari, nell'ambito del Medimex-Salone dell'innovazione musicale, il prossimo 8 Dicembre. Ecco i nomi dei vincitori:

Miglior Album: Niccolò Fabi con "Ecco", che arriva davanti a "Fantasma" dei Baustelle, e ai quotatissimi "Sulla Strada" di Francesco de Gregori e "L'ultima Thule", l'album dell'addio alle
scene di Francesco Guccini.

Miglior disco esordiente: vince Appino con "Il Testamento", fortunatissimo esordio solista del
frontman degli Zen Circus, prodotto da Giulio Ragno Favero del Teatro degli Orrori

Andrea Appino
Mauro Ermanno Giovanardi


Categoria interpreti: qui si impone l'ex La Crus Mauro Ermanno Giovanardi con "Maledetto Colui che è Solo".


Infine la targa per il miglior disco dialettale va a Cesare Basile con il suo disco omonimo.
Cesare Basile